Le , par Marina Casini
La Corte Costituzionale italiana con una ordinanza del 2018 (n. 207) e con una sentenza del 2019 (242), seguendo la linea tracciata dalla legge 219/2017 sulle disposizioni anticipate di volontà, ha depenalizzato, a certe condizioni, l’aiuto al suicidio fino ad ora vietato in ogni caso dall’art. 540 del codice penale. Le decisioni hanno fatto molto discutere anche per perché la Corte ha calpestato le regole della democrazia arrogandosi un potere che non le compete. Per questo sono condivisibili lo sdegno e l’amarezza di tanti per questa grave sconfitta civile. Una sconfitta per tutta la società. Ci saranno, purtroppo effetti nefasti sulla solidarietà. Verranno meno le ragioni profonde della prossimità e dell’assistenza. Con tutte le drammatiche conseguenze sul Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
In un contesto che non approviamo in alcun modo, ma col quale comunque dobbiamo fare i conti, due in particolare ci sembrano gli aspetti da valorizzare. Il primo è che Corte Costituzionale ha sì depenalizzato l’aiuto al suicidio in alcune circostanze, ma nessun medico ha il dovere di aiutare qualcuno a suicidarsi, anche se rientra nelle situazioni particolari individuate dalla Consulta. Una grande differenza con la legge sull’aborto, dove è previsto l’obbligo di eseguire l’“intervento” sulla base del documento «firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta». Per il suicidio assistito non c’è quindi bisogno di prevedere l’obiezione di coscienza, perché «resta affidato, pertanto alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»: il medico semplicemente potrà valutare liberamente di volta in volta come comportarsi, senza dover ricorrere a compilazione di moduli o stesura di documenti in caso di rifiuto a collaborare, come è invece nel caso dell’aborto volontario. Si può perciò dire che, nonostante tutto, resta sullo sfondo la consapevolezza che la medicina, per restare fedele a se stessa, non può farsi dispensatrice di morte. Viene quindi rispettato il Codice deontologico il quale prevede all’art. 17 che: «Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte». La libertà del medico è salvaguardata dal principio generale di cui all’art. 4: «l’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritto inalienabile del medico» e dall’art. 22 (“Rifiuto di prestazione professionale”): «Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici».
Un secondo aspetto importante riguarda l’inserimento di un effettivo percorso di cure palliative e terapia del dolore tra le condizioni necessarie per poter accedere al suicidio assistito. Tali condizioni sono: Le condizioni sono: patologia irreversibile, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche. Sono condizioni che contrariamente a quello che può sembrare a prima vista sono interpretabili in maniera elastica ed estensiva. Ma – questo è il punto importante – sarebbe un «paradosso», scrive la Corte, «non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative». Il tema delle cure palliative e della terapia del dolore è fondamentale e, al di là di ogni affermazione a favore, c’è molto da fare per rendere praticamente accessibili queste cure e terapie a tutti su tutto il territorio nazionale. Eppure, purtroppo, c’è una legge, la n. 38 del 2010 che ancora non è né abbastanza conosciuta né, soprattutto, applicata in ogni aspetto.
C’è infine un terzo punto che merita attenzione : la verifica sia delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio, sia delle relative modalità di esecuzione sono affidate alle strutture pubbliche, integrate dall’«intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità». Cioè, il SSN si fa carico di controllare l’accesso e le procedure mediche per il suicidio assistito, e niente viene detto su dove debba essere eseguito e su chi lo debba eseguire. Ora, se da un lato non convince affatto che il SSN, cioè la collettività, si faccia in qualche modo carico di una prestazione mortifera, dall’altro lato va detto che così viene impedito che si facciano largo strutture private dedicate al procurare la morte su richiesta: non saranno possibili offerte “tutto compreso” da parte di gruppi di interesse, ed ogni singola richiesta deve superare il vaglio di strutture pubbliche che non ne traggono guadagni. Insomma, in questo modo se il SSN è obbligato a verificare le condizioni per accedere e le modalità di esecuzione, non è però tenuto a garantire le strutture e il personale per l’assistenza al suicidio.
A fronte di tutto questo diventa quindi prioritario un impegno a 360 gradi sul piano medico, culturale, formativo, educativo, per promuovere accoglienza, solidarietà e autentiche relazioni di cura, ma anche sul piano concreto per sostenere le realtà che si occupano di accudire e proteggere amorevolmente quanti sono afflitti da malattia, disabilità, sofferenza, situazioni che esigono cura e premura, non morte procurata. I medici sono in prima linea e la loro responsabilità è innegabile e notevole perché in gioco sono ancora una volta l’inscalfibile dignità umana e il sollievo dalla sofferenza. La sofferenza non si combatte con il farmaco letale, ma con la terapia del dolore e le cure palliative. È chiaro che dietro l’introduzione sociale del suicidio assistito come dell’eutanasia c’è una cultura che non sa riconoscere la dignità umana nei malati, nei disabili, negli anziani e strumentalizza il tema della libertà. È la cultura dello scarto. È necessario reagire e non soccombere. È necessario che la medicina palliativa e la terapia del dolore siano davvero diffusa su tutto il territorio nazionale, che si rinforzino autentici legami e relazioni di autentica solidarietà, perché come abbiamo detto tante volte la morte si accetta e non si cagiona. Questo è civiltà.
Auteur de l'article
Marina Casini
Italia | Presidente del Movimento per la Vita. Giurista e bioeticista, protagonista dell'iniziativa europea Uno di noi.
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